Alberto Moravia, La ciociara


Moravia è uno degli autori considerati imprescindibili del Novecento italiano. Io sono laureata in Lettere, per la precisione il corso si chiamava Studi italiani ed europei; ma non avevo mai letto un romanzo di Moravia, né al liceo né all’università. Per come sono strutturati i percorsi scolastici e universitari, queste sono lacune che possono capitare, e non di rado. D’altronde la letteratura italiana è così ricca che alcune opere non possono rientrare nei corsi di studio, e devono essere necessariamente recuperate in modo autonomo. Era da tempo che volevo leggere Moravia, ed ero indecisa su quale romanzo scegliere per iniziare. Alla fine ho optato per La Ciociara: sarà per il film con Sophia Loren, che non ho ancora visto per intero ma solo a spezzoni, sarà per la tematica trattata che conosco per sommi capi, sarà per l’ambientazione ciociara, appunto, a cui sono molto legata per storie familiari. 

La lettura di questo romanzo è stata lenta e difficile, ogni parola si è sedimentata in me e ha lasciato traccia. Infatti ho scelto, per questa lettura, di adottare il metodo originale del taccuino del lettore: cioè annotare le frasi che più mi colpivano, con il numero di pagina, per poi riguardarle alla fine (le ho inserite tutte anche in questo articolo).

La storia è raccontata in prima persona da Cesira, donna di origini ciociare trasferitasi a Roma a seguito del suo matrimonio, che rimasta vedova eredita l’attività commerciale del marito, un negozio di alimentari. Insieme alla figlia adolescente Rosetta conduce una vita agiata, finché a Roma non inizia a farsi sentire la guerra, con le sue ristrettezze economiche e il razionamento del cibo. 

“Sono cose che è difficile spiegare: di solito la gente vive nelle città in cui i negozi sono pieni e non fa provviste tanto sa che per qualsiasi necessità ci sono i negozi, appunto, ben forniti di tutto. Così si illude che questo fatto dei negozi pieni sia quasi un fatto naturale come il ritorno delle stagioni e la pioggia e il sole e la notte e il giorno. Storie: la roba può mancare tutto ad un tratto, come mancò infatti quell’anno e allora tutti i milioni del mondo non bastano a comprare un cantoncello di pane e senza pane si muore”.

Cesira inizialmente fa affari con il mercato nero, ma a un certo punto per la propria sicurezza e per inseguire una vita più serena, decide di recarsi con la figlia a Vallecorsa, il paese di origine della propria famiglia, in provincia di Frosinone. Prima di arrivare a destinazione però le due dovranno fermarsi a Sant’Eufemia, località di montagna vicino Fondi, dove vengono ospitate dalla famiglia Festa. Qui conoscono la realtà dei contadini di provincia, così diversa dagli agi romani a cui sono abituate, e conoscono Michele, figlio di contadini che ha ricevuto un’istruzione ed è contrario alla guerra e critico verso i fascisti: un personaggio che diventa poi amico di Cesira e Rosetta, sebbene le due lo guardino sempre con una certa diffidenza. L’argomento numero uno nei discorsi tra i contadini e tra gli altri sfollati su per le macere – i terrazzamenti agricoli – di Sant’Eufemia è il prossimo arrivo degli alleati, visti come veri e propri salvatori:

“Quanto ne parlai degli alleati, su e giù per le macere, all’aria aperta, guardando il panorama di Fondi e al mare azzurro così lontano, oppure la sera nella capanna di Paride, quasi al buio, col fumo che ci faceva lacrimare, davanti il fuoco semispento oppure ancora di notte, a letto, abbracciata a Rosetta, prima di dormire. Ne parlai tanto e tanto che pian piano questi alleati erano diventati un po’ come i Santi di paese che fanno le grazie e portano la pioggia e il bel tempo e uno ora li prega e ora li insulta e sempre si aspetta qualche cosa da loro. Tutti si aspettavano cose straordinarie da questi alleati, appunto come dai santi; e tutti erano sicuri che con il loro arrivo la vita non soltanto sarebbe tornata normale ma anche molto migliore del normale.”

Proprio perché la storia è raccontata da Cesira, possiamo assistere ai suoi pensieri, che sono semplici e profondi, quelli di chi inizia a conoscere la guerra e la guarda da lontano, con distacco e stupore. Ne riporto uno come esempio:

Era una bellissima giornata, serena, calma, col cielo senza una nube e tutta la pianura verde e prospera di Fondi distesa fino alla striscia vaporosa del mare, tanto bello a guardarsi, così azzurro e sorridente. E ancora una volta ascoltando quei botti e guardando a quel paesaggio, io pensai che gli uomini vanno per un verso e la natura per l’altro e quando la natura si scatena con un temporale con tuoni, fulmini e pioggia, spesso gli uomini sono felici nelle loro case; mentre invece, quando la natura sorride e pare che voglia promettere eterna felicità, capita invece che gli uomini si disperino e desiderino di morire. 

Gli Alleati però tardano ad arrivare, e anzi si vocifera di possibili incursioni di tedeschi sulle montagne, per rastrellare giovani italiani che cercano di nascondersi per non partecipare alla guerra. Per sfuggire a queste possibili incursioni Cesira, Rosetta e Michele iniziano a passare le giornate in alta montagna, in un’ambientazione quasi surreale, fatta di rocce, prati e silenzio. A Cesira tornano in mente le favole che ascoltava da bambina, su un misterioso tesoro delle fate sepolto tra le montagne:

Ma questo tesoro sotto terra non c’era, come sapevo; l’avevo invece trovato dentro me stessa, con la stessa sorpresa che se l’avessi scavato con le mie mani; ed era stata quella calma profonda, con la mancanza completa di paura e di ansietà, Quella fiducia in me e nelle cose che, passeggiando tutta sola, mi erano cresciute nell’animo a misura che i giorni passavano. In tanti anni furono quelli forse i miei giorni più felici, e, strano a dirsi, furono proprio quelli in cui mi ritrovai più povera, più sprovvista di tutto, con pane e formaggio per cibo e l’erba del prato come letto e neanche una capanna per rifugiarmi, quasi più simile ad un animale selvatico che ad una persona. (p. 208-209)

A Sant’Eufemia, ogni tanto, risuonano i cannoni che raccontano lo scontro tra tedeschi e alleati nella pianura sottostante, vicino Fondi, ma gli abitanti e gli sfollati li ascoltano come si ascolta un’eco lontana di qualche evento naturale, la guerra diventa parte della vita, né più né meno che un temporale:

Il cielo sembrava una pelle di tamburo e quei cannoni vi rimbombavano sordamente e cupamente, proprio come quando si sferra un pugno sopra una grancassa. Faceva impressione sentire un simile rumore minaccioso e tetro in quelle bellissime giornate; veniva fatto di pensare che la guerra facesse ormai parte della natura, che quel rumore fosse legato e confuso con la luce del sole e che la primavera fosse malata anch’essa della guerra come ne erano malati gli uomini. […] Questo per dire che ci si abitua a tutto e che la guerra è proprio un’abitudine e che quello che ci cambia non sono i fatti straordinari che avvengono una volta tanto ma proprio questo abituarsi, che indica, appunto, che accettiamo quello che ci succede e non ci ribelliamo più. 

Quando arriva il momento di partire da Sant’Eufemia, ancora ignara di ciò che la aspetterà nel proseguire il viaggio, Cesira sperimenta un gran senso di libertà dopo tanta attesa, e capisce che forse è proprio nell’attendere qualcosa che risiede la verità dell’esistenza:

Io nove mesi che avevo  passato in quella stanza li avevo vissuti giorno per giorno, ora per ora e minuto per minuto con l’intensità della speranza e della disperazione, della paura e del   coraggio, della volontà di vivere e del desiderio di morire. Soprattutto, però, avevo aspettato una cosa, la liberazione, che aveva la qualità di essere giusta oltre che bella, di riguardare anche gli altri oltre che me. E allora capii ad un tratto che chi aspetta una cosa come questa, vive con maggiore forza e verità di quelli che non aspettano nulla. E passando dal mio piccolo al più grande, pensai che lo stesso poteva dirsi di tutti coloro che aspettano cose tanto più importanti, come il ritorno di Gesù sulla Terra o il successo della giustizia per i poveretti. E dico la verità, come uscii dalla stanza per andarmene definitivamente, mi sembrò di abbandonare non dico proprio una chiesa ma un luogo quasi sacro perché là dentro ci avevo sofferto tanto e, come ho detto, avevo aspettato e sperato non soltanto per me ma anche per gli altri. 

Alla fine gli Alleati tanto aspettati sono arrivati; la guerra continua, ma è una guerra diversa, mescolata alla gioia feroce della vendetta dopo tanta sofferenza; i pensieri di Cesira mentre ascolta i proiettili fischiare sulla sua testa, nascosta insieme a Rosetta in una casa diroccata a Fondi, esprimono benissimo il senso di liberazione che sperimenta:

E io seguivo col pensiero quel proiettile mentre fischiando e miagolando fendeva l’aria e poi lo vedevo piombare ad un tratto nel salone facendo saltare in aria fascisti e nazisti, Hitler e Mussolini, con tutte le loro teste di morto, i loro Pennacchi, le loro Croci, i loro pugnaletti e i loro stivali. e questa esplosione mi dava una gioia profonda e io capivo che questa Gioia non era buona perché era la gioia dell’odio ma non potevo farci niente, Si vede che io avevo odiato tutto il tempo fascisti e nazisti, senza saperlo, e adesso che il cannone spara va su di loro, io ero contenta punto è così, da un’esplosione all’altra, io andavo e venivo, col pensiero dal cannone E da questo di nuovo al salone e ogni volta rivedevo le facce di Mussolini e di Hitler e dei fascisti e venerdì sti e poi quella dell’artiglieria americano e ogni volta ritrovavo quella stessa gioia e non ne ero mai sazia punto e dopo, in seguito, ho sempre sentito parlare tanto di liberazione, e ho capito che la liberazione ci fu davvero perché io quel pomeriggio la sentii come si sente un fatto fisico, come si sente di star bene dopo che si è stati legati e poi si viene slegati; come si sente di essere liberi dopo che si è stati rinchiusi in una stanza sotto chiave e tutto ad un tratto ti aprono la porta.  

Cesira, constatata la difficoltà di tornare a Roma che è ancora terreno di scontro tra Tedeschi e Alleati, decide di andare a Vallecorsa, il suo paese di origine: è sicura che lì lei e Rosetta potranno trovare rifugio e assistenza. Ma la realtà è molto diversa: il paese è stato completamente evacuato ed è deserto e le due donne sole trovano rifugio in una chiesa, dove credono di essere al sicuro ma dove avverrà il fatto più tremendo della vita di entrambe. Vengono aggredite da soldati dell’esercito alleato, proprio quelli che dovevano essere i liberatori, e Rosetta subisce una violenza sessuale. La fanciulla che agli occhi della madre era sempre stata la figlia d’oro, la ragazza perfetta, colei che aveva una fiducia incrollabile nella vita e nella Provvidenza e a cui la madre si sosteneva, perde la voglia di vivere, sembra come assente, e la madre pensa di averla persa. Più della descrizione della violenza in sé, la cosa più dolorosa di questa parte del romanzo è proprio la convinzione di Cesira di aver ormai perso la figlia. Mi ha fatto stare male a leggerla, perché è la descrizione di una frattura, di una ferita, quella provocata dalla violenza, che sembra insanabile. Cesira è convinta che non potrà più essere felice, non riesce a trovare un senso alla vita:

Compresi allora che era stato tutto un sogno: il tentativo di suicidio, l’intervento di Michele e le sue parole che non avevo udito. Mi restava, però, il rimpianto struggente, amaro, violento di non aver udito quello che lui mi diceva; e, per un pezzo, mi rivoltai dentro il letto domandandomi che cosa avesse potuto essere; e pensavo che, certamente, lui mi aveva detto perché non dovevo uccidermi, perché valeva la pena di continuare a vivere e perché la vita in tutti i casi era meglio della morte. Sì, lui, di certo, mi aveva spiegato in poche parole il senso della vita, che a noi vivi sfugge, ma per i morti deve essere, invece, chiaro e lampante; e la mia disgrazia aveva voluto che io non capissi quello che lui diceva, benché quel sogno fosse stato veramente una specie di miracolo; e i miracoli, si sa, sono miracoli appunto perché tutto vi può succedere, anche le cose più incredibili e più rare. Il miracolo c’era stato, ma, soltanto a metà: Michele mi era apparso e mi aveva impedito di uccidermi, era vero, ma io, per colpa mia di certo, perché non ne ero degna, non avevo inteso perché non avrei dovuto farlo. Così dovevo continuare a vivere; ma come prima, come sempre, non avrei mai saputo perché la vita era preferibile alla morte.

La pesantezza delle pagine finali è stata per me come una cortina di fumo denso, che rendeva l’aria irrespirabile. Mi sono dovuta fermare, sentivo un grande senso di ingiustizia, avrei voluto dire a Cesira: sei la mamma, devi capirla, la tua Rosetta, devi abbracciarla, non scandalizzarti pensando che “non è più lei”… Mi sono forzata a riprendere la lettura, e ho sperimentato ancora una volta quanto sia vero che la lettura scava in profondità, che le parole usate da altri per raccontare storie di altri trovano risonanza in noi, in luoghi nascosti di noi che ancora non conoscevamo. Leggere le ultimissime pagine è stato, così, come il vento che spazza via le nuvole, e il fumo se n’è andato, e ho respirato. Lascio a voi, in conclusione di questo articolo, le parole che più mi hanno fatto respirare: parole legate al canto e alle lacrime. Il canto e le lacrime come segno di rinascita, di resistenza, dell’io irriducibile che rimane al fondo di ogni violenza, al di sotto di ogni dolore. Grazie a Moravia di averlo raccontato, grazie a Rosetta – perché i personaggi prendono vita propria, al di là dei loro autori – per quella canzone e per quelle lacrime. Rosetta sono anche io.

Poi, tutto ad un tratto, avvenne un fatto strano che non avevo preveduto: Rosetta che, sinora, come ho detto, non aveva mostrato alcun sentimento, incominciò a cantare. Prima con voce esitante e come strangolata, poi chiarendosi e affermandosi la voce, in maniera più sicura, prese a cantare la stessa canzone che io le avevo chiesto di cantare poco prima e lei, sentendosi incapace, aveva interrotto alla prima strofa. era una canzonetta di moda un paio d’anni avanti e Rosetta era solita cantarla come ho già detto accudendo le faccende domestiche; non era granché, anzi era alquanto sentimentale e sciocca e io pensai dapprima che era strano che la cantasse proprio adesso dopo la morte di Rosario, una prova di più della sua insensibilità e della sua indifferenza. Ma poi mi ricordai che quando le avevo chiesto di cantare lei aveva risposto che non ne era capace perché si sentiva come svogliata; e rammentai pure di aver pensato che lei era proprio cambiata e non poteva più cantare perché non era più quella di una volta; e d’improvviso mi dissi che lei, forse, riprendendo a cantare, intendesse farmi capire che non era vero che fosse cambiata, che lei, invece, era sempre la Rosetta di una volta, buona, dolce e innocente come un angelo. Infatti, mentre pensavo queste cose, la guardai e vidi allora che aveva gli occhi pieni di lacrime; e queste lacrime sgorgavano dai suoi occhi spalancati e scivolavano giù per le guance; e fui ad un tratto del tutto sicura: lei non era cambiata come avevo temuto; quelle lacrime lei le piangeva per Rosario prima di tutto, che era stato ammazzato senza pietà, come un cane, e poi per se stessa e per me e per tutti coloro che la guerra aveva colpito, massacrato e stravolto; e questo voleva dire che non soltanto lei non era, in fondo, cambiata, ma neppure io che avevo rubato il denaro di Rosario né tutti coloro che la guerra, per tutto il tempo che era durata, aveva reso simile a se stessa. D’improvviso mi senti tutta consolata; e da questa consolazione sgorgò spontaneo il pensiero: “Appena a Roma, rimanderò questo denaro alla madre di Rosario.” Senza dir nulla, passai un braccio sotto il braccio a Rosetta e le strinsi la mano nella mia.

Lei cantò più e più volte quella canzone mentre la macchina correva alla volta di Velletri; e poi, quando le lacrime cessarono sgorgare dai suoi occhi, cessò di cantare. 

Alberto Moravia, La ciociaraultima modifica: 2021-04-13T14:27:34+02:00da giuliadibez
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